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Apollo nella mitologia romana era in origine soprattutto il dio della medicina. Divenne poi, per assimilazione con la corrispondente divinità del mondo greco, il dio della luce (era detto infatti anche "phoebos", cioè "il brillante"), della poesia, della musica e della bellezza. Esiodo racconta che era figlio di Giove e di Latona, e fratello gemello di Diana. |
A Delfi, in Focide, si trovava il tempio più famoso per il culto di Apollo, dove una sacerdotessa, la Pizia, trasmetteva agli uomini i responsi del dio.
Apollo viene da Dante chiamato Timbreo (Pg. XII, 31), in ricordo del culto che al dio veniva tributato a Timbra, nella Troade, ed anche in questo caso il poeta traeva la notizia da Virgilio (Eneide III, v. 85 e Georg. IV, v. 323).
Nel Paradiso Dante invoca Apollo (Pd. I, 13 e sgg. e Pd. II, 7 e sgg.), dio della poesia, perchè lo guidi e lo assista, insieme con le Muse, nella composizione dell'ultima e più complessa cantica con la stessa forza e la stessa potenza con cui aveva vinto e punito per la sua superbia il satiro Marsia, che aveva osato sfidarlo in una gara di abilità nel suono di strumenti musicali.
Dante invoca Apollo non certo in quanto divinità pagana, ma come rappresentazione di un aspetto del Dio cristiano.
La cultura medioevale intendeva infatti il mondo pagano, per alcuni suoi aspetti, non in opposizione con il mondo cristiano, quanto piuttosto come una sua espressione parziale ed incompleta, in qualche modo "velata". La nascita di Cristo in questo senso rappresenta per l'umanità il momento della "rivelazione" e quindi della possibilità di intendere in modo pieno la verità. In quest'ottica, e riallacciandosi alla tradizione classica che lo onorava come dio della luce, Dante vede in Apollo la personificazione del sole (Pd. XXIX, 1), che il mondo cristiano identificava con Dio.
Apollo viene altresì definito da Dante nel Paradiso (Pd. XIII, 25) "peana", termine con il quale usualmente viene però indicato non il dio, ma l'inno che in suo onore veniva cantato.