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FRANCESCA e PAOLO Inf. V, 73
Cerchio 2 - Lussuriosi

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I personaggi danteschi sono da identificarsi con Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio, signore di Ravenna (che "siede", è fondata, "su la marina dove il Po discende", la riviera Adriatica), e Paolo Malatesta.

Francesca aveva sposato, di certo dopo il 1275, Gianciotto Malatesta, il figlio deforme e zoppo ("ciotto") di Malatesta da Verrucchio, signore di Rimini.


Era un matrimonio stipulato per ragioni politiche: infatti esso sanciva e garantiva la pace fra le due famiglie e le due città dopo un lungo periodo di scontri. Romanzeschi sono i particolari relativi all'incontro tra Francesca ed il cognato Paolo Malatesta: si narra che Paolo si recò a Ravenna per sposare, per procura di suo fratello, Francesca, certo è che i due si innamorarono e furono sorpresi e trucidati da Gianciotto di certo dopo il 1282-1283, periodo in cui Paolo fu capitano del popolo a Firenze, e più probabilmente nel 1285, anno in cui Gianciotto fu podestà a Pesaro.

Le tre terzine dantesche raccontano, secondo l'ampia trattatistica del tempo, i momenti salienti della vicenda d'amore e della perdizione eterna di Paolo e Francesca.
A parlare con il poeta è sempre la donna, ma, a contrappunto delle parole di Francesca, c'è il pianto silenzioso di Paolo, che completa l'effetto unitario del narrare "come colui che piange e dice".

Inf. V, 100-102
Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

La corrispondenza fra "amore" e "cuore gentile" è uno dei cardini dello stilnovismo: Dante stesso aveva scritto che "Amore e cor gentil sono una cosa" e, prima di lui, anche il Guinizzelli aveva affermato che "Al cor gentil rempaira sempre amore".
Questa terzina rende, quindi, conto del sentimento di Paolo, che, a causa della sua gentilezza d'animo e della bellezza della cognata, non può non provare un sentimento d'amore, pericolosamente al margine, forse, fra l'amore-gioco e l'amore passione.
L'inciso che chiude il verso 102 "e 'l modo ancor m'offende" è uno dei nodi del testo dantesco ed ha impegnato a lungo la critica.

Alcuni hanno voluto vedervi il primo accenno alla morte violenta, forse prematuro, se si considera la perfetta scansione nei tre tempi canonici del racconto di Francesca (nascere del sentimento, reciprocità, conclusione), e fuori luogo, se si considera che nella valutazione di Dante la fine della vicenda non è la morte, ma "il doloroso passo", il drammatico passaggio dall'amor cortese alla passione.
In Dante, poi, il vocabolo "offendere" ha raramente il significato corrente, mentre è più attestato il valore di "avvincere" oppure di "danneggiare".

L'inciso può essere così interpretabile come il rimpianto di Francesca non per il sentimento in sè, accettato e voluto a tal punto che dura immutato nell'eternità ("come vedi ancor non m'abbandona" Inf. V, 105), ma per il modo il cui quell'amore si è realizzato, non secondo i gentili canoni dell'amor cortese, ma nei modi della passione che fece perdere ad entrambi l'onore in vita e la salvezza per l'eternità.

Inf. V, 100-102
Amor, ch'a nullo amato amar perdona
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

La seconda terzina, invece, rende conto del sentimento di Francesca. La reciprocità dell'amore è un altro dei temi fondamentali dell'amor cortese: per Andrea Cappellano, infatti, l'amore non può tollerare che l'oggetto amato non ricambi il sentimento.

Inf. V, 103-104
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense

Gli ultimi versi rendono conto del tragico epilogo di questa vicenda e, al tempo stesso, forniscono lo spunto per la meditazione di Dante sul tema fondamentale del rapporto fra amore-virtù ed amore-passione.
Francesca, con dolcezza composta e dolente, racconta il momento del peccato, il più irriflessivo ed insieme determinante, che chiude la sua vita spirituale.
"Un giorno" qualsiasi, in una condizione del tutto normale della vita di corte che, Dante conosceva bene, i due cognati leggono insieme uno dei romanzi tanto diffusi. Il turbamento nasce seguendo ancora quei canoni dell'amor cortese, tranquillo e forse un po' compiaciuto gioco sentimentale, codificato nel "De Amore" di Andrea Cappellano, ma acquista presto tutt'altra forza.

Inf. V,133-138
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

"Tra l'amante ed il peccato si gitta in mezzo l'inferno, e il tempo felice si congiunge con la miseria, e quel momento d'oblio, il peccato, non si cancella più, diviene l'eternità." (F. De Sanctis, Saggi Critici, vol.2).
Il libro ha ormai svolto il suo ruolo di portare i due cognati alla reciproca consapevolezza del loro sentimento, ed i due possono smettere di leggere la passione della finzione e vivere la passione della realtà, ma non per questo si deve supporre che furono uccisi quel giorno stesso. La morte è un fatto occasionale che eterna, nella condizione in cui colse i due amanti, uno stato di perdizione già in atto.

Scrive U. Bosco (Commento pag. 66): "Il punto di arrivo, per così dire, del poeta era questo: non solo il "vizio di lussuria" di Semiramide e di Cleopatra, ma anche l'amore di Didone, cui nel suo poema Virgilio aveva tanto indulto, anche quello esaltato dai romanzi cavallereschi, e persino l'amore stilnovistico, di cui Paolo e Francesca, come questa dirà, si erano nutriti, possono condurre a perdizione terrena ed ultraterrena. ... Che cosa può far sì che un'attrazione innocente si tramuti in peccato? ... Dante in cospetto della fragilità non solo di Paolo e Francesca, ma della fragilità sua propria e di tutti china pensoso la testa. Un momento improvviso e inopinato, e il "talento", il desiderio di dolcezza e di felicità, ha il sopravvento e ci perde. Da qui la pietà: per Francesca, per se stesso, per tutti.".