Sidereus Nuncius

Al di là del valore scientifico universalmente riconosciuto al libretto di Galileo, nel 1610, anno della sua pubblicazione, il Sidereus Nuncius ebbe il grandissimo merito di aprire prepotentemente un confronto su temi sui quali in quegli anni dominava un’assoluta cecità.
E non casuale è l’utilizzo di quest’ultimo termine: cecità.

Le critiche che immediatamente vennero mosse allo scienziato pisano traevano origine proprio dai dubbi che da più parti si avanzavano circa la validità dello strumento utilizzato da Galileo per le sue osservazioni; mentre ancora risuonava l’eco di quelle che si accompagnarono nei primissimi tempi riguardo la effettiva paternità del telescopio.
Tali critiche, se dovevano arrendersi dinanzi all’evidenza delle proprietà scientifiche del cannocchiale per ciò che riguardava l’osservazione delle cose vicine, si inasprivano nel momento in cui quello strumento veniva puntato al cielo.

E d’altronde come potevano i coevi di Galileo improvvisamente comprendere, accettare, porre fede soprattutto, nell’ "artificio" offerto da quello strano occhiale, ove i loro occhi erano stati fino ad allora la misura e il limite d’ogni esplorazione celeste e, con i sensi tutti, il criterio assoluto per determinare l’esistenza reale?
Contro ciò Galileo dovette battersi, ancora una volta scontrarsi contro la caparbietà di antichi pregiudizi - "Vorremmo ancora far gl’occhi nostri misura dell’espansione di tutti i lumi, sì che dove non si fanno a noi sensibili le specie degl’oggetti luminosi, là si deve affermare che non arrivi la luce di quelli?" - e dimostrare la verità di uno strumento che finalmente era in grado di potenziare la percezione visiva, di ampliarla senza falsare la realtà.

Una delle maggiori critiche al Sidereus venne dallo Studio Bolognese e da Antonio Magini in particolare. Sembra che proprio il Magini sia stato l’ispiratore di una Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum pubblicata a Bologna nel 1610 da Martino Horky.
Galileo rispose andando personalmente a Bologna. Recava con sé uno dei suoi cannocchiali e invitò il Magini a compiere con lui le medesime osservazioni che lo avevano condotto alle scoperte documentate nel libretto. Ma la sorte non fu benevola con Galileo. Al generale scetticismo dei Bolognesi diedero man forte le proibitive condizioni atmosferiche ed il cattivo funzionamento delle lenti, che tendevano a sdoppiare le immagini focalizzate. A conclusione della visita, il Magini definirà lo strumento di Galileo una frode in grado di mostrare, con il banale uso di lenti colorate, nient’altro che tre Soli e un’eclissi.
Perplessità non dissimili espresse anche, tramite il padre Clavio, il Collegio Romano, che riteneva le osservazioni galileiane frutto di un ingannevole uso delle lenti.

Keplero, pur ammettendo l’oggettiva importanza delle osservazioni di Galileo, pubblicate in un volume dal titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo, non abbandonava un prudente atteggiamento agnostico, dettato dal non essere in possesso di strumenti adeguati a compiere le medesime esperienze effettuate dallo scienziato pisano. Scriverà a Galileo:
"Dammi le navi e adattami le vele al vento celeste; vi sarà gente che non tremerà per sé, nemmeno di fronte a quell'immensità…"
I telescopi di Keplero non consentivano un ingrandimento superiore a tre volte il diametro dell’oggetto osservato, ed altri, anche se più potenti, presentavano grossi limiti imposti dalla loro scarsa luminosità. Sarà nel settembre 1611, quando riceverà l’occhiale che lo stesso Galileo aveva provveduto ad inviargli, che Giovanni Keplero, in seguito alle osservazioni di Giove, riconoscerà le reale portata delle scoperte galileiane. Ed anche l’anziano, ma ancora autorevolissimo padre Clavio, nel dicembre successivo, dovrà tornare sui suoi passi ed ammettere i meriti di Galileo.

Accanto alle critiche fu però grande anche il coro degli osanna.
Il libretto aveva presto oltrepassato i confini di un’Italia provinciale e proiettava ormai la fama di Galileo sulla più ampia scena della scienza europea.