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ADRIANO V, papa Pg. XIX, 79; (successor Petri) Pg. XIX, 99
Cornice V - avari e prodighi

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Ottobono Fieschi, dei conti genovesi di Lavagna, nacque fra il 1210 ed il 1215.
Nominato cardinale dallo zio, papa Innocenzo IV, ricoprì molti delicati incarichi nella curia di Roma e fece parte della legazione pontificia in Inghilterra. Eletto papa l'11 luglio 1276, trasferì la sede papale a Viterbo e, non più giovane e di certo malato, morì il 18 agosto 1276, dopo soli trentotto giorni di pontificato.

Due questioni vengono poste dal testo dantesco.
La prima riguarda l'accusa di avarizia che Dante formula per Adriano. Il poeta attinse di certo a testimonianze documentarie, non avendo potuto avere esperienza diretta del papato di Adriano, dato che nel 1276 aveva appena undici anni. I documenti del tempo insistono, tuttavia, sulla liberalità prima del cardinale Ottobono, poi del papa Adriano, ma ricordano di lui l'amore per il potere, del resto comprovato dalla sua formidabile ascesa nella gerarchia ecclesiastica.
L'avarizia di Adriano va intesa, quindi, secondo le sue stesse parole, come brama di potere, come la cupidigia, simboleggiata dalla lupa e causa di tutti i mali del mondo:

Pg. XIX,103-105
Un mese e poco più prova' io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda
(chi lo vuol salvaguardare dall'infamia),
che piuma sembran tutte l'altre some.

La seconda questione riguarda l'ipotesi di pentimento.
Umberto Bosco ha rintracciato nel "Policratus" di Giovanni di Salisbury, un'opera edificante molto nota nel Medioevo, il detto di un papa Adriano che la Commedia ricalca completamente. Giovanni di Salisbury, però, vissuto nel XII secolo, non poteva riferirsi ad Adriano V, ma ad Adriano IV, che fu papa dal 1154 al 1159. E' evidente che Dante non attinse direttamente al "Policratus" ma ad un'altra fonte che già faceva confusione fra i due papi omonimi.

Il punto focale di questo episodio, al di là di inesattezze e confusioni, è "... il significato di questa confessione di papa pentito, forse il più pentito dei penitenti: la sua umanità pacata e pensosa, solenne e dimessa" (U.Bosco, Commento, pag.320), riassunta nella definizione che egli propone al poeta della espiazione degli avari: "e nulla pena il monte ha più amara" (Pg. XIX,117)